giovedì 30 aprile 2009

L'altra metà del libro- Mostra illustratrici



A Sant’Ippolito, il 5 Aprile, è stata inaugurata una mostra itinerante, interessante perché raccoglie numerose illustratrici italiane. Significativo il titolo dato alla collettiva “l’altra metà del libro” che sottolinea bene il valore dell’immagine sulla buona riuscita di un prodotto editoriale, ma la didascalia apre ad un paradosso “professioniste e artiste…”: perché la scelta di scindere l’artista dal professionista? l’artista può non essere un professionista? E allora quando un artista diventa un professionista? Secondo la definizione consueta, professionista è colui che esercita la propria professione a fronte di un titolo di studio, in questo caso una scuola d’arte o un’Accademia per la quale lo Stato riconosce giuridicamente una Istituzione di rappresentanza. In teoria quindi, qualsiasi persona esca da queste scuole è da considerarsi un professionista in grado di produrre arte. Se da un punto di vista della certezza del diritto questo sarebbe corretto e semplice, dal punto di vista della qualità e del valore artistico questo criterio salta. Le librerie sono sommerse da libri illustrati, editi da case editrici importanti, di scarsissimo interesse artistico. Il caso Roberto Innocenti fortemente in polemica con la casa editrice Einaudi mostra come essere un artista riconosciuto e valorizzato dagli editori sia cosa estremamente difficile. Gli editori dovrebbero riuscire a identificare artisti di qualità, promuovendoli ed essere capaci di isolare e scartare artisti di poco valore. Forse il marketing ha invaso il campo dell’arte, chi decide il destino di un illustratore molto spesso ignora completamente che cosa sia un lavoro “fatto ad arte”. Se poi entriamo nell’editoria scolastica, dove gli autori dei libri sono maestre, e a loro spetta la scelta dell’illustratore “giusto”, il danno sarà inevitabile. Quando si sceglie un illustratore per un libro, il curriculum dell’artista dovrebbe essere il suo lavoro, e non la capacità dell’artista di sapersi vendere. Ma perché i migliori illustratori, molto spesso, non trovano una collocazione nel mercato italiano? Lascio la conclusione a Bruno Munari che, già agli inizi degli anni ‘70, dichiarava “…l’artista lavora per lui e per un èlite che lo possa capire…Questa èlite è formata dalle persone più importanti di una società, e condiziona il resto della società. Secondo il tipo di società si ha un tipo di èlite diversa. Supponiamo il tipo di società di gente corrotta, di furbi e speculatori, di parassiti, di ignoranti e quindi presuntuosi, di ipocriti e di disonesti… ebbene, da questo tipo di società si avrà un èlite composta dal più furbo, dal più corrotto, dal più reazionario…Ora possiamo domandarci: quale tipo di arte può consumare questa particolare èlite?”.
foto: Maddalena Arcangeli, una delle 23 illustratrici presenti alla mostra

giovedì 16 aprile 2009

Chi non ha paura della propria ombra?

Chi non ha paura della propria ombra? O dei temporali? O della radio che gracchia canzoni? O della aspirapolvere che potrebbe inghiottire chiunque? O degli ombrelli che come spade verso il cielo potrebbero ferirci?. Non è solo una questione di prudenza ma di volersi così bene da non provare disagio nell’essere così timorosi. Non è che ci si vergogni o ci si nasconda, si è quello che si è, punto e basta. Senza pretese. Vivere abbassandosi quando si attraversano tendoni alzati come vele dal vento o aggirare una pozzanghera per non bagnarsi o abbaiare quando dei piccoli puntini dalla forma umana si avvicinano è solo questione di stile di vita. Poter stare in automobile… allora sì che tutta la vita sembrerebbe sicura. Rimanere lì, per sempre, vedere il mondo attraverso un finestrino, magari con qualche centimetro aperto ma non troppo per non far entrare troppa vita, tutta insieme.
E’bello poter trascorrere la propria giornata con persone che sanno apprezzare la diversità, nessuna finzione, sensibili abbastanza, da farti entrare ai primi roboanti tuoni o tenerti in disparte durante i rumorosi party, senza dover salutare e scodinzolare a tutte quelle sorridenti persone. In quanto ai premi, niente vale più di un luogo lontano, isolato da tutto perchè lì ci si sente liberi di correre, di annusare, di rotolare il corpo nella natura per nascondere il proprio odore, non per cacciare ma per rimanere ancora un po’ in disparte. Andare, a passo spedito, con il tartufo in azione, lungo i sentieri rocciosi, curva dopo curva, respirando veri attimi di gioia, poi, aspettare, perché è meglio andare tutti insieme, fare squadra, non si sa mai… qualcosa potrebbe sbucare da dentro una tana.

lunedì 6 aprile 2009

Arte e bolle di sapone

Nell’arte contemporanea non c’è più speranza, nessuna prospettiva per il futuro, nessuna utopia ma solo istantanee di una vita scabra e senza affetti. Ne ho avuto la conferma, un po’ di anni fa, passeggiando per le gallerie del Moderna Museet di Stoccolma inciampando nell’opera di Paul McCarthy “the Garden”. Non ho avuto reazioni per qualche minuto perché il mio cervello ha impiegato un po’ per capire se si trattava di un opera o una performance o qualcos’altro: manichini a dimensione reale animati da un movimento meccanico compivano atti osceni contro un albero. Il fatto di non aver avuto reazioni mi ha portato a pensare che forse quell’opera aveva fatto leva sul mio lato un po’ inadeguato o voyeuristico, e alla fine reale, di quello che l’essere umano è diventato, non molto diverso da quei personaggi grotteschi che animano il mondo dell’artista. Siamo così attratti dalla morbosità da appassionarci a storie finite tragicamente, creare del business intorno a scene del crimine organizzando tour per visitare i luoghi del misfatto, ma poi rimaniamo freddi ed indifferenti se la nostra vicina di casa viene massacrata ogni giorno dal marito o se vediamo nelle nostre strade una donna in difficoltà, come se il non vedere corrispondesse al non accaduto. Siamo così diversi dall’inquietudine del personaggio del video “Tubbing” che esprime la sua difficoltà a relazionarsi con la realtà giocando con il ketchup e salsicce fino a farne metafore di escrementi e fluidi corporei o da quel genitore che canta al proprio figlio soggiogato “ Daddy come on for work again…”? l’arte contemporanea non è così lontana dalla realtà, è la realtà stessa ad essere brutale e senza speranza. L’arte pubblicitaria patina la realtà con un accattivante packaging, qualche velina profumata e tanta speranza per il futuro. Una sdolcinata realtà fatta di bella gente, vestita bene, con macchine superveloci, con case pubblicate sui più importanti mensili d’arredamento, ed è tutto un proliferare di parole come lusso, originale, prestazioni, quotazioni, gift, benefits, benessere, spa. A questo punto mi chiedo qual è la vita reale o meglio, a quale realtà preferisco credere?
Nel dubbio rimango seduta accanto ai bagnanti ad Asnières a godermi una bella giornata di sole.

giovedì 2 aprile 2009

Little Windy



La piccola Windy non riusciva a capire perché i suoi genitori si ostinassero a volerla far socializzare con gli altri cani: lei era una bambina!
Lei odiava i cani, i loro odori, i loro stupidi giochi, mal sopportava quando riportavano la pallina o inseguivano le farfalle o ancor peggio le lucertole. Li guardava insospettiti soprattutto quando la invitavano a giocare, niente era più terrorizzante, niente la faceva rabbrividire come un essere a quattro zampe che scodinzolando le si avvicinava. Lei si fermava ad osservarli, a distanza, come si osservano le cose estranee e diverse. Sicura, da quel chilometro che la divideva dal resto del mondo, si rannicchiava sulla panchina del parco e si lasciava andare al sogno di essere quello che non era.
Come tutti gli esseri sensibili si faceva molte domande: non riusciva a capire perché era costretta ad aspettare fuori dalla porta insieme agli altri cani per la consueta visita di controllo o perché quei deliziosi biscotti baklava della signora Elka non le venivano mai dati o perché c’erano cose che le erano vietate come andare a dormire dentro le lenzuola di flanella quando faceva molto freddo o perché in macchina doveva stare nel bagagliaio insieme alle valigie o perché la sua mamma per non perderla l’aveva equipaggiata di una medaglietta con il suo nome e un numero di telefono da tenere pesantemente al collo…
Ma tutto sommato stava crescendo serena perché convinta che tutto questo si sarebbe risolto non appena fosse diventata grande.